La Mosca metallica
un racconto di Gerardo Regnani
(Parktraits stories)
G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
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Il sogno vivido di una Mosca metallica, tra cinismo e ironia, "a contatto" con la Malattia di Parkinson.***Finirò probabilmente prima stordito, poi schiacciato da qualche parte. Stordito da uno spray insetticida, che mi paralizzerà il sistema nervoso, poi, una scarpa distratta finirà, forse, il lavoro, spiaccicandomi sul pavimento. Finirò così, l’ho sognato di nuovo stanotte. Morirò schiacciato come una mosca. Non proprio “come”, perché io sarò, purtroppo, quella… mosca. Si, proprio una di quelle temutissime mosche verde-bottiglia. Uno di quegli agenti decomponenti biologici, che, a ragione, vengono comunemente chiamate "mosche metalliche”. Un nome che potrebbe far fare capriole orgasmiche allo scrittore William Gibson immaginando quel nome, magari al singolare, scritto bello grosso sulla copertina del suo prossimo romanzo fantascientifico. Un bel libro in brossura, con una sovracopertina sulla quale spiccherebbe l'ologramma che mi farebbe “resuscitare” incessantemente, ad ogni nuovo sguardo. Insetto, ma eterno, almeno nella memoria del suo target tipico di lettori. Una mosca appartenente alla famiglia delle calliforide. Anche questo, sempre declinato al singolare, ovvero calliforida, potrebbe essere forse altrettanto intrigante per Gibson. Forse…, ma non divagherò oltre. Finirò probabilmente così, dicevo, mentre tenterò di deporre le mie uova bianche su qualche pezzettino di carne nuda, senza pelle. Indipendentemente se sia viva o morta. La preferenza per la carne morta - piuttosto che per la carne viva - che mi viene di solito attribuita è solo illusoria, perché, in realtà, risponde, banalmente a una semplice esigenza funzionale. Un’esigenza funzionale, dicevo, perché su animali o persone ancora vive potrei essere, per quanto ovvio, probabilmente scacciata e, quindi, non potrei agire tranquillamente - come vorrei e farei, invece – se fossi, ad esempio, su di un cadavere.

G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
In quella dimensione di “pace”, dovrei solo preoccuparmi di spartire il territorio con gli altri miei “colleghi”, gli altri insetti e animali tipici di questi “banchetti”. Ci chiamano gli agenti principali della decomposizione e, di norma, siamo proprio tanti. Ma su un cadavere, alla fine, c’è quasi sempre abbastanza posto, di solito, un po’ per tutti. Ammesso e non concesso, però, che il corpo sia disponibile e, non ultimo, sia anche in qualche modo accessibile. Soprattutto i resti umani, ogni giorno che passa, lo sono sempre meno. Già prima di morire, ogni umano è infatti spesso circondato da una teoria incessante di altri suoi simili. È una situazione che ricordo bene, per averla vissuta già tante altre volte, fatta, com’è di: parenti, amici, medici, infermieri, badanti, etc. Non parliamo, poi, della processione post mortem. Un autentico circo equestre. Variegato. Infinito. Tra quelli della parrocchia, il fioraio, altri medici, le Pompe funebri, il portiere, i familiari e chi più ne ha, più ne metta, c’è sempre meno da banchettare. Con le carogne degli animali, fortunatamente, va ancora abbastanza bene, ma, a dire il vero, è tutto un altro tipo di… “materia prima”. Comunque, sto di nuovo divagando… Stavo dicendo, infatti, della competizione con i miei affini, gli altri calliforidi (Calliphoridae) e i saprofagi (Sarcophagidae). Benché i veri specialisti, devo riconoscerlo, siano i bigattini. Sì, proprio le comunissime larve della mia specie, i calliforidi, e di altri ditteri, usati abitualmente come esche dai pescatori. Loro sì che sono davvero precisi e determinati. Scientifici, direi. I bigattini sono infatti in grado, in climi con temperature calde o comunque adeguate, di contribuire alla completa distruzione delle parti non ossee in tempi sorprendentemente rapidi, grazie anche alla loro impressionante capacità riproduttiva, sia per la rapidità sia per le proporzioni. Ma, va detto, al banchetto, oltre noi “piccoletti” potrebbero partecipare, condizioni permettendo, anche bestiole enormemente più grandi rispetto alle nostre stazze, quali: cani, volpi, gatti, ratti e via concludendo l’elenco stile documentario della BBC. Va tuttavia anche detto che questa famelica pletora di “invitati” non è solo e sempre del tutto una disgrazia, perché questi, essendo più grandi, rimuoveranno e spargeranno più facilmente in giro le ossa del “piatto del giorno” compresi i relativi residui di tessuti organici molli e non, magari, liberandoli almeno in parte – ovvero tirandoli fuori e/o separandoli - dall’involucro o dall’ambiente nel quale si trovavano o erano stati eventualmente prima riposti. Questo è lo scenario che, per grandi linee, si ricrea più o meno uguale tutte le volte. E così sarà di nuovo a breve, ne sono certo, anche con questo tizio che ho incrociato anche oggi mentre portava a pisciare il cagnolino nell’aiuola vicino casa. Il “ristorantino” dov’ero momentaneamente occupato a cagare anch’io uova sulla carognetta di uno storno accoppato da una pietrata tiratagli da un ragazzetto lercio di borgata, pure un pò matto, che chiamerò Sciatto, come se fosse uscito dalla penna di Pier Paolo Pasolini. Il tizio comunque lo avevo comunque già visto altre volte nei dintorni e mi è sempre rimasto impresso. Sì, perché ha un passo molto strascicato ed è mezzo curvo di lato. È lento, tremolante, ipomimico, sbava e inciampa, oltre che con i piedi, anche con le parole. Poi, quando finalmente prende a parlare, per via della Festinazione, lo fa talmente in fretta e d’affanno che, il più delle volte, non si capisce quasi un cazzo. E, per concludere con questa “anamnesi” da insetto “laico”, aggiungo che la tipa che molte volte lo accompagna (potrebbe forse essere la figlia, data una vaga somiglianza) - peraltro giovanissima e pure niente male! - ho sentito che, parlando al telefono, dicesse a qualcuno che è ormai molto depresso e stremato. Anche per tale motivo, i medici hanno pertanto dovuto rivalutare anche l’impianto del DBS, continuando una sorta di sempre meno efficace “accanimento terapeutico”.

G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
“Una vera sfiga…!” gli aveva sentito ripetere più volte nell’altoparlante, riferendosi a quegli altrettanto famelici, quanto “stimati”, saprofagi umani che – poveretti, loro! - hanno dovuto purtroppo rinunciare a fargli l’intervento. Perdendo, così, il loro paffuto onorario. Un quadro clinico severo e via di ulteriore degenerazione progressiva, che, nonostante le cure attente, professionali e, non ultimo, umane di altri medici, comunque non depone bene. Per farla breve - sempre che, nel frattempo, non si sia involontariamente autostrozzato a causa dell’ennesima disfagia - non mi sorprenderebbe se dovesse tentare di trovare una via... “alternativa”. È un tipo creativo, sai? Credo di averlo ormai già un po’ inquadrato. L’ho capito via via, anche se non è stato facile fare questa sorta di autopsia psicosociale sul suo quasi-cadavere, dato il peggioramento ultimamente più accentuato del suo “amato” Parkinson… e dagli altri “amici” che lo accompagnano tra i quali: l’ipertrofia prostatica, il glaucoma, la stipsi quasi cronica, etc., etc. Certo, in alternativa, sarebbe meglio riceverlo, ancor più se inatteso, questo "regalo"... Perché, ricordando le indagini semiotiche di Maria Giulia Dondero nel suo "Fotografare il Sacro", il dare gratuito può rappresentare, se è autentico, proprio l'essenza ideale del dono Un dono puro che può evocare, se è tale, persino una dimensione sacrale, trascendente. In particolare per la sua natura, appunto, gratuita, inattesa e “disorganizzata”. Legata, come è, talvolta, anche al caso. Una dimensione priva di contraffazioni, senza tatticismi contingenti e/o strategie di medio o lungo periodo. Un dono immotivato, dunque, istintivo e sublime insieme, come può esserlo un’alba. Un avvento... Una donazione pura, che, estremizzando, potrebbe assumere i contorni di un gesto addirittura “irresponsabile”, pari a un atto inconscio. Estraneo persino al donatore, e, pertanto, essendo impersonale, è libero da ogni necessità di controbilanciamento sociale. Radicalizzando ulteriormente - e tornando, quindi, sostanzialmente all'inizio - lo si può immaginare anche come un atto senza nome, ignoto finanche a sé stessi. Privo, dunque, di una relazione con qualcuno/qualcosa. Senza un volto, senza un’identità. In altre parole: anonimo e, se possibile, persino invisibile. Come potrebbe esserlo, appunto, proprio la dimensione o una relazione con il... Sacro. O, qualcosa/qualcuno che gli sia affine. Come i nostri figli, per esempio... Come un'amicizia... Come la pace..

G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
Poi, d’un tratto, una specie di pernacchia sorda, tambureggiante a singulti, mista a un sibilo sinistro e, insieme, ad una sgradevole e umiliante sensazione di melma bagnata che ti “allaga”, mista a un odore nauseante, quanto familiare… Merda, mi sono cagato di nuovo addosso! Tutto tappato per settimane, poi mi sveglio di soprassalto, “stappato”, galleggiando in un mini merdaio universale. Tutto in una notte e, guarda caso, con il pannolone che non ha ovviamente retto bene neanche questa volta. Sono passato, così - nell’attimo fatale e tragico scandito dal solito gong di una super “scureggia vestita” - da un “sogno vivido”, con tanto di mosca verde mangia carcasse, benché colta e che cita a memoria i nomi scientifici degli agenti putrefattori come lei, alla merda mondana e putrefatta realtà di un cadavere in fieri. E pensare che solo qualche giorno fa, mi facevo le mie solite pippe mentali sulla resistenza. Addirittura su quell’altra coglionata galattica per un parkinsoniano della… resilienza! La verità, quella dura, concreta, fisiologica è quella che è già o sarà comunque fra un po’ e con buona pace di qualche - comunque inutile - iperbole narrativa più o meno anticipatrice. Ma non è, in realtà, soltanto questa “fotografia” esterna a preoccuparmi. Magari, lo fosse, mi verrebbe quasi da dire, perché, per quanto assurdo possa sembrare, si tratterebbe comunque di un nemico che “ha una forma” e non solo “contenuto” (i reflui corporali dei quali accennavo prima, per fare un esempio…). Quello che temo davvero, è soprattutto il “Cavallo di Troia” che ormai mi porto da tempo dentro. Un agente patogeno, ancor più temibile, secondo me, dei disturbi motori più meno tangibili. Un mostro mi ronza dentro, disumano, metallico, verde, per usare anche due metafore-eco che fanno tanto effetto scrittore creativo, rinviando al sogno vivido che, ovviamente, ho inventato del tutto. Se potessi dormire bene come vorrei, mi augurerei di “non perdere” certo il sonno con simili stronzate onirico-fantasiose. Tenterei di riposare meglio e fine della storia onirica. E, in ogni caso, non mi è mai sembrato si possa trattare di una (“banale”?) forma depressiva, benché, probabilmente, tecnicamente forse comunque lo sia. E ciò, in costanza del fatto che, in realtà, non temo davvero praticamente nulla. Persino la Morte, con la sua inossidabile “resistenza” dialettica non l’ho mai veramente temuta. E, come chiunque, anch’io credo di aver da tempo avviato una sorta di relazione dialettica con la Morte. In realtà, credo che tutto sia dotato di un’estetica e di una dialettica – tecnicamente, dei mezzi di comunicazione – persino quando queste proprietà sembrino assenti o, addirittura, negate. Che persino la Morte, sia vista in diretta sia mediata, comunque ne possieda. Quella che la caratterizza è, di norma, una sceneggiatura angosciante segnata da una successione di momenti agghiaccianti, non di rado contraddistinti proprio da una surreale assenza apparente di dialettica. La Morte, del resto, è una contingenza che sembra non ammettere – per definizione, per statuto – alcuna contrapposizione dialettica con chicchessia. È la dolente e immutabile negazione di qualsiasi confronto, senza pietà e/o sconti per nessuno. Sempre implacabile di fronte a qualunque forma di vita. Tutto, in ogni caso, dalla Morte in giù, comunque comunica anche attraverso espressioni estetiche e dialettiche – materiali, immateriali che siano o appaiano – anche qualora sembrino mancare e/o paiano respinte al mittente. Come chiunque, credo, della Morte temo comunque, almeno teoricamente, l’eventuale componente traumatica (sia essa eventualmente autoinferta sia che venga “somministrata”). In ogni caso, ho sempre considerato la Morte “soltanto” una meta biologica. L’ultima e, comunque, un orizzonte oltre il quale, francamente, non mi sembra “si veda” molto altro. A parte, ovviamente, quel poco di “ammuina” mondana e organica dovuta al contingente processo di decomposizione dell’organismo fisiologico e alla necessità sanitaria, di norma mascherata da rituale funerario, di liberarsi comunque prima possibile del compianto. Ma, prima di arrivare a questo, occorre attraversare il tunnel oscuro della malattia. Malattia intesa come la frazione più buia e terribile dell’esistenza e la casa come luogo di sofferenza, di dolore, pur rimanendo comunque un presidio di tenace opposizione alle avversità della vita e, comunque, simbolico baluardo di fiducia nel futuro. Dolore, sofferenza della mia carne, del mio corpo. Un corpo che ho immaginato, in una poesia del 2017 (la prima di quattro dedicate a questa mia condizione). come la mia... "casa":

G. Regnani, dal polittico La casa - "Interni", 2017 (particolare)
La casa. "Interni"
La mia casa era un caos calmo.
La mia casa, ora, è una paralisi agitante.
La mia casa era un albero solido.
La mia casa, ora, è un relitto ondeggiante.
La mia casa era una fiamma avvolgente.
La mia casa, ora, è solo riflessi involontari.
La mia casa era una teoria di luci e di idee.
La mia casa, ora, è una pena crescente.
La mia casa era forza e volontà.
La mia casa, ora, è tremore e terrore.
La mia casa era uno spazio libero.
La mia casa, ora, è un luogo ostile.
La mia casa era di mattoni e cemento.
La mia casa, ora, è una fragile esistenza.
La mia casa era un progetto ambizioso.
La mia casa, ora, è una vita senza sogni.
La mia casa era una mente viva.
La mia casa, ora, è carne senz'anima.
La mia carne... è stata la mia casa.
Il mio corpo, ora, non è più la mia casa.
Il mio corpo, ora,
è ormai un'ombra debole,
quasi solo...
pensiero.
Pensiero...
La salute non è comunque la pura e semplice assenza di malattia, bensì lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale della persona. Benessere psicofisico e sociale che una diagnosi infausta, evidentemente, nega e tende a dissolvere, “armata” com’è spesso, similmente alla morte, di un’antidialettica amara e crudele. Un’indisponibilità ferrea alla mediazione, talora “rinforzata” da un’estetica altrettanto drammatica e priva di tatto, che, invece di mitigare, può, viceversa, accentuare ulteriormente lo stato di malessere e di disagio in cui vive lo sfortunato protagonista.

G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
La malattia è, quindi, una forma di comunicazione? Di sicuro la malattia, attraverso il progressivo degradarsi del corpo, è vista, in particolare, dal ricercatore ed antropologo R.F. Murphy come un penoso grimaldello che apre le porte ad una dimensione altra, ad una sorta di fuga dal mondo, che interrompe e sconvolge gli abituali ruoli sociali e fa assumere una veste nuova al malato. Questa situazione, in relazione alla severità della patologia, lo esonera, in parte o del tutto, dai suoi precedenti doveri sociali. È una dispensa collegata, però, ad una specifica contropartita (ideologica, verrebbe da chiedersi?), ossia: fare tutto il possibile per ristabilirsi. Ciò, perché anche l’infermità deve sottostare a delle regole sue e specifiche, paradossalmente persino quando queste non possano essere o non serva più che siano, comunque, rispettate. Radicalizzando, penso, in particolare, al c.d. “accanimento terapeutico” e, più in generale, a quei percorsi terapeutici che assumono forme di parossismo tali da rasentare la schizofrenia, come nel caso di patologie che, talvolta, per quanto curabili, non siano comunque guaribili. Il malato non ha comunque scelta, caricato, come è, dell’onere di fare ogni sforzo possibile per migliorare il proprio stato di salute. Qualunque carenza, un cedimento qualsiasi può essere letto come un’assenza d’impegno, persino come un segno indesiderato e/o prematuro di abbandono. Abbandono, come quello interiore, dell’anima, che ho provato a sintetizzare in questi versi:

G. Regnani, dal polittico La casa - "Interni", 2017 (particolare)
La "bella follia"
Tecnicamente:
disturbo del tono dell'umore,
disagio esistenziale,
sindrome maniaco-depressiva.
Follia.
Bestia nera delle patologie mentali.
Odissea medica.
Senza tregua, senza fine.
Morso feroce,
vorace,
tenace.
Solitudine,
disperazione.
Nessun senso,
nessun sapore.
Spegnersi,
fermarsi.
Sopravvivere?
Morire. Dolore invisibile,
incomunicabile.
Inesistenza al,
del mondo.
Slittamento verso un altrove.
Nodi in gola,
sensi di colpa.
Masochismo morale?
Sofferenza.
Enigma indecifrabile.
Devastazione letale.
Dolore,
vuoto.
Lacerazione dell'anima.
Aggressività interiore.
Spietata,
privata.
Infelicità cronica.
Chiusura interiore.
Annullamento.
Tabù sociale.
Lasciare il mondo
e viceversa.
Dissolversi dell'esistenza.
Angoscia, paura.
Soli, col male oscuro.
Incubo?
Buco nero.
Polverizzazione di legami.
Isolamento, fragilità.
Psicoterapia, ansiolitici, psichiatri.
Allucinazioni,sogni vividi.
Solitudine.
Male di...
vivere?
Male dell'... essere.
In questo sottobosco culturale, la cosa più ardua resta comunque il dover subire il progressivo dissolversi della propria indipendenza di scelta, perché, come malati, ancor più se disabili, si dipende, purtroppo, più o meno completamente dagli altri. Si sperimentano così, amaramente, un costante calo dell’autostima e un’incursione progressiva e spietata – una vera e propria usurpazione – della mente ad opera della malattia. Insieme cresce anche una rabbia smisurata, alimentata dalla triste consapevolezza di aver acquisito un’inedita, quanto sgradita, diversità. Diversità che, nell’immaginario collettivo, associa abitualmente il Parkinson alla lentezza. Una condizione nella condizione che ho “descritto” in una seconda poesia intitolata: “Lenta mente”.

G. Regnani, dal polittico La casa - "Interni", 2017 (particolare)
Lenta mente
C’è chi dice che non siamo programmati per la velocità.
C’è chi dice che viviamo in un mondo troppo veloce.
C’è chi dice che il tempo sembra contrarsi.
C’è chi dice che siamo continuamente connessi.
C’è chi dice che tendiamo ad imitare macchine sempre più veloci.
Chi dice che siamo sempre più chiamati a rispondere in tempi brevi.
Chi dice che siamo ipersollecitati.
Chi dice che abbiamo sempre troppa fretta.
Chi dice che abbiamo dimenticato che il cervello è una macchina lenta.
Chi dice che non comprendiamo i vantaggi di una civiltà riflessiva.
Che non apprezziamo più il pensiero lento.
Che subiamo ormai inermi la cieca convulsione del quotidiano
Che il tempo è tiranno.
Che siamo sempre sotto pressione.
Che siamo schiavi del caos degli impegni.
Abbiamo bisogno di una maggiore tranquillità.
Viviamo in un mondo troppo accelerato.
La vita è una totale frenesia visiva e cognitiva dai tratti patologici.
Le ore della giornata sembrano sempre troppo poche.
Il tempo non ci basta più.
Che impieghiamo il tempo nella maniera sbagliata.
Che chi non ha il tempo dalla sua è fregato.
Che occorrerebbe una nuova cultura del tempo.
Che occorrerebbe rallentare.
Che sia ora di fermarsi.
Chi dice che la rivoluzione della lentezza inizia dai piccoli gesti quotidiani.
Chi dice che abbiamo perso la virtù della calma.
Chi dice che la lentezza dovrebbe essere una scelta di vita.
Chi dice che la vita dovrebbe scorrere come un lungo fiume tranquillo.
Chi dice che subiamo accelerazioni eccessive.
C’è chi dice che dovremmo imparate dalle lumache.
C’è chi dice che occorrerebbe liberarsi dalla schiavitù della produttività.
C’è chi dice viva lo slow food.
C’è chi dice che c’è un enorme sperpero di tempo.
C’è chi dice che la nostra società privilegia l'efficienza.
Chi dice che dovremmo riprenderci i nostri tempi.
Chi dice che dovremmo vivere al ralenti.
Chi dice che è stanco dei viaggi mordi e fuggi.
Chi dice che vuole riascoltare la natura.
Chi dice che quando troverò un po' di tempo per me stesso?
Che si è perso il "ritmo giusto".
Che tutto dev'essere il più rapido possibile.
Che la cifra dell’oggi è la fretta.
Che tutto ci incalza e ci travolge.
Che la vita è diventata una condanna.
Quando saprò fermarmi?
Siamo inquadrati in un'agenda troppo fitta di impegni.
Siamo ossessionati da una perenne ansia da prestazione.
Non siamo più felici.
La fretta è uno dei mali della società moderna.
Che la vera vita è una vita lenta.
Chi dice che si è persa la dimensione della contemplazione.
C’è chi dice che abbiamo perso il lusso del "perdere tempo".
Chi dice che tutto è corsa e frenesia.
Che è tutta una Babele. Vite altre, invece, vanno al ralenti.
Vite altre,
“controcorrente”.
Vite altre,
“flemmatiche”.
Vite altre,
“rilassate”.
Vite altre,
"scelte”,
come la...
mia.
Come la mia.
E, passando dall’incredulità dello scoprirsi malato al fare progressivamente esperienza della disabilità, la malattia tocca corde intime delicatissime, alimentando un’ira esistenziale per un’afflizione senza fine e un crescente desiderio di ribellione nei confronti del mondo intero. Sebbene possano essere infondati, tendono irrazionalmente ad emergere anche un’odiosa sensazione di colpevolezza, mista a vergogna. La persona disabile sperimenta inoltre l’ulteriore forma di imbarazzo e di rancore legata, in particolare, a quelle circostanze nel corso delle quali sono più o meno visibili le proprie difficoltà (motorie, dialettiche, mnemoniche, etc.), con l’inevitabile mortificazione del doverle comunque affrontare/mostrare. Si pensi, per quanto banale sia, ai comuni atti di vita quotidiana. L’emergere della malattia comporta, pertanto, una continua riconsiderazione e rimodulazione quali/quantitativa del proprio ruolo sociale, con inesorabili e, talvolta, pesanti riflessi sul proprio microsistema relazionale di riferimento. Un potenziale, graduale, sgretolarsi dei rapporti sociali e il conseguente ritrarsi dai contesti potenzialmente più ansiogeni e, in generale, dai contatti con gli altri. Il diradarsi progressivo delle relazioni precedenti l’insorgenza della patologia disabilitante può essere talora compensato dalla ricerca di nuovi affetti, magari … tra i “propri simili”. Il malato è dunque costretto a ridiscutere tutto, in un incessante e intenso confronto tra il proprio io e gli altri, tra se stesso e quanto lo circonda, ma, soprattutto, tra se stesso e … se stesso! In questa prospettiva, la progressiva perdita di autonomia, posta in relazione con il proprio mondo, prende inevitabilmente il sopravvento, divenendo via via “la” condizione centrale del quotidiano di una persona disabile. R.F. Murphy, al riguardo, aveva evidenziato che: “La dipendenza dalla malattia è molto più di una semplice dipendenza fisica dagli altri, perché genera una sorta di relazione sociale asimmetrica che è onnicomprensiva, esistenziale e per certi versi più invalidante rispetto alla menomazione fisica in sé. E non è tanto uno stato del corpo quanto uno stato della mente, una condizione che deforma tutti i legami sociali e contamina ulteriormente l’identità di chi è dipendente. La dipendenza invade ed erode le basi [N.d.R.] sulle quali si fondano le relazioni sociali.” Un assalto crudele che mette a dura prova – e su più fronti – sia la “vittima prescelta” sia i suoi legami sociali ed affettivi, persino quelli più forti e duraturi. Durante l’evolversi della patologia il malato saggia, tra l’altro, il concetto di liminalità, ovvero quella condizione di passaggio da una situazione sociale – di norma migliore, non solo dal punto di vista della salute – ad un’altra. Ed è proprio nel transito tra le due condizioni che si incontra questa dimensione liminale, questo “limbo sociale” popolato di vite indefinite e sospese “a mezzaria”. Una dimensione frustrante, ha ricordato ancora R.F. Murphy, nella quale coloro che sono affetti da una patologia severa: “[…] non sono né malati né sani, né morti né pienamente vivi, né fuori dalla società né totalmente partecipi. Sono esseri umani, ma i loro corpi sono deformati o malfunzionanti, lasciando nel dubbio sulla loro piena umanità […] tutt’altro che devianti, sono il controcanto della vita quotidiana.” Per considerare appieno l’infermità, non basta analizzare la sola componente sociale, perché non rende compiutamente la varietà e l’articolazione pluridimensionale della malattia, composta, come è, da esperienze, relazioni, emozioni, contesti, simboli, significati, etc. Una multidimensionalità che – connaturando in più modi l’ontologia della malattia, la sua immanenza nell’esistenza umana – interessa più ambiti: il sapere scientifico, il rapporto personale con la propria fisiologia, le relazioni tra l’individuo e la circostante realtà sociale e quelle tra sé stessi e l’ambiente naturale e/o artificiale di riferimento. Il corpo “esposto”, indifeso e perdente dell’infermo è, quindi, il luogo reale e/o virtuale e, purtroppo, vulnerabile, dove si sperimenta la perdita di funzioni/facoltà e le relative umiliazioni, divenendo un emblema evidente della fragilità umana. Nel progressivo e mutevole definirsi della patologia si crea inoltre uno strappo, via via più ampio e talora incolmabile, tra quanto in precedenza era e quanto, nel qui ed ora, invece è divenuto il corpo – non solo fisico – del malato. Un prima e un dopo che fanno i conti con lo stereotipo, duro a morire, del soggetto “a norma”, rispetto a quello che non lo è più.”

G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
Il malato, in particolare quello che vive una menomazione anche fisica, ne fa ripetutamente esperienza, tra l’altro, negli sguardi/commenti altrui sulla sua disabilità, nei luoghi pubblici come in quelli privati, nella corsa ad ostacoli quotidiana tra ambienti pensati non di rado solo per persone normodotate, che li costringono a continui e a volte difficili, se non impossibili, adattamenti, stress, etc. Una rete di disagi che, unita all’impossibilità di governare convenientemente i deficit crescenti del proprio corpo, sviliscono ulteriormente la qualità, già più o meno compromessa, del vivere quotidiano. Può emergere, in simili circostanze, una sorta di esternalizzazione dell’identità: un estraniamento, una forma di alienazione e di presa di distanza della mente che “fuoriesce” dal corpo malato.” Uno stato definito da R.F. Murphy “disembodiment”: “La mia soluzione al problema è stata la radicale dissociazione dal corpo, una specie di esternalizzazione dell’identità […] I miei pensieri e il senso di essere vivo sono stati riportati al mio cervello dove adesso risiedo e che, più che mai, è la base da cui mi protendo e afferro il mondo.” “Le sensazioni, lo stato reale, la fisiologia del corpo assumono quindi un ruolo subordinato, diventano una sorta di sottofondo, quasi fosse qualcosa di distaccato e di “lontano”. E, in tal modo, tutta la vita possibile viene affidata alla mente. Nessun’altra “trasferta”, rileggendo nuovamente Il silenzio del corpo di R.F. Murphy, mi è sembrata essere mai stata così pervasiva e "coinvolgente"! Anche per questo, ma non solo, non potendo lasciarsi andare, vivo ormai quasi costantemente, per dirla con una parola sola, nella… paura!

G. Regnani, La Mosca metallica, 2022
Un mondo di sensazioni "variopinte", che, in qualche modo, ho riassunto in una quarta e ultima poesia (a tratti, forse, persino… "onomatopeica”), scritta sempre nel 2017, che trascrivo, qui di seguito, per chiudere questa penosa e schizofrenica narrazione simil-kafkiana, mentre, fuori, il mondo continua, incessante, nella sua follia.

G. Regnani, dal polittico La casa - "Interni", 2017 (particolare)
Paura
Affanno,
tachicardia,
tremore.
Paura. Sudorazione anomala,
occhi sbarrati,
muscoli tesi.
Paura. Bocca asciutta,
voce deformata,
adrenalina.
Paura. I suoi volti,
i suoi inneschi,
i suoi disinneschi.
Paura. Temuta,
malfamata,
implacabile.
Paura. Strategica,
evolutiva,
adattiva.
Paura. Sopravvivenza,
resistenza,
resilienza.
Paura. Allarme,
risposta,
adattamento.
Paura. Ansia,
panico,
spavento.
Paura. La mia risposta adattiva alla sorte,
la mia strategia,
la mia resilienza.
Paura. Non semplice paura,
timore,
terrore,
orrore!
Paura…
Roma, 8 marzo 2022 G. Regnani gerardo.regnani@gmail.com

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